lunedì 29 novembre 2010

Palmira (parte IV) - la necropoli


La tomba di Giambico risale all’83 d. C.
La porta d’accesso ha una architrave riccamente decorato con frontone a motivi floreali poggianti su due grifoni. All’altezza del terzo piano la facciata presenta una struttura architettonica composta da un secondo frontone sostenuto da due pilastri con capitello corinzio, che doveva proteggere la rappresentazione a tutto tondo del costruttore della tomba, oggi scomparsa. Al di sotto ci sono due sostegni aggettanti in forma d’aquile e,  più in basso, teste d’leone. L’interno è più sobrio rispetto a quello della tomba precedente: lo spazio tra ogni fila di loculi è inquadrato da semplici cornici modanate, mentre il soffitto è decorato da motivi a losanghe.

La tomba più antica ritrovata a Palmyra ha una struttura ad ipogeo, è datata alla seconda metà del II secolo a. C., e si trova sotto l’impianto del tempio di Baalshamin (situato nella parte est della città e completato nel 131 d. C.). in origine essa doveva avere anche una struttura esterna, caratteristica che le successive tombe non hanno conservato. Queste ultime sono molto numerose e si trovano nelle necropoli di sud – ovest, di sud – est e nella zona ai piedi del castello arabo che sovrasta Palmyra.


Esempi significativi sono la cosiddetta “tomba dei tre fratelli”, la “tomba di Yarhai” e la tomba “F”. nella “tomba dei tre fratelli”, a sud – ovest di Palmyra, un corridoio in leggera pendenza – per un dislivello di due metri – conduce al portale di accesso costituito da due enormi battenti monolitici in pietra, che girano su pesanti cardini. I battenti sono decorati da motivi geometrici e sull’architrave e sugli stipiti sono incise cinque iscrizioni, redatte nel dialetto aramico palmiriano: la prima ricorda la fondazione della tomba, le altre sono atti di vendita di parti dell’ipogeo, redatti in diverse occasioni (dal 160 al 241 d. C.). sei gradini facilitano la discesa all’interno della tomba, che ha una pianta a “T” rovesciata.


Tre gallerie (chiamate “esedre” nelle iscrizioni) si dipartono dall’entrata per una lunghezza di nove metri ciascuna – una a destra, una a sinistra ed una di fronte. Sono divise in spazi verticali, ognuno dei quali poteva accogliere fino a sei defunti posti ordinatamente uno sopra l’altro, dal soffitto al pavimento, per un’altezza che poteva variare dai 3 ai 4 metri. Ogni loculo è chiuso da una lastra con la raffigurazione in rilievo del defunto a mezzobusto ed una breve epigrafe che ne ricorda il nome ed il patronimico.


 La galleria centrale è quella più importante: sul fondo appare la scultura a tutto tondo del fondatore della tomba, attorniato dalla famiglia – immediatamente visibile dall’entrata. Il defunto era rappresentato sdraiato su un triclinio, nella posizione tipica del banchetto.


. Periodicamente, infatti, i familiari si recavano nella tomba per onorare con banchetti funerari i loro morti. Questi erano quindi rappresentati come partecipi – simbolicamente – delle cerimonie organizzate in loro favore.


Il fondo dell’esedra centrale ha rifiniture particolarmente ricche, costituite da colonne, capitelli e trabeazioni che reggono una finta volta, splendidamente affrescata. Sulle pareti sono raffigurati i defunti a figura intera oppure a mezzo busto, racchiusi entro spazi circolari sorretti da vittorie alate e che conservano molto vividi i colori originali.  L’arco sotto la volta presenta scene tratte dalla mitologia classica. I volti dei defunti e delle vittorie non sono sfuggiti alla furia iconoclasta dei primi arabi che visitarono le tombe, deturpandoli vistosamente. L’ipogeo dei “tre fratelli” ospita 300 loculi.


Una simile disponibilità, che sicuramente travalicava le reali esigenze di una famiglia, anche considerando le generazioni successive, può essere spiegata attraverso le iscrizioni poste, in genere, sulle trabeazioni delle porte d’accesso agli ipogei o delle “tombe a torre”.
Esse ci informano che i fondatori delle tombe potevano cedere parti delle stesse agli altri, che ne divenivano proprietari a tutti gli effetti di legge. Da ciò si deduce che le attività economiche dei palmireni non si limitavano al solo commercio, ma erano più complesse e a volte anche alla compravendita di immobili, perfino i funerari.


La tomba di Yarhai, oggi ricostruita nel museo di Damasco, ha una pianta longitudinale. Fu scavata nel 108 d. C. nella parte centrale della Valle delle Tombe con entrata a nord. Una larga scalinata (tre metri di larghezza) conduce alla porta d’ingresso monolitica con architrave finemente scolpito. Al corridoio centrale furono aggiunte due esedre laterali alla fine del II secolo d. C. Quella orientale è rimasta incompiuta; quella occidentale con accesso a gradini, invece, fu tutta lastricata in pietra e inquadrata da un arco a tutto sesto. La saletta cosi realizzata ha le pareti tappezzate da raffigurazioni anche a tutto tondo: sul sfondo due sacerdoti, riconoscibili dal basso copricapo cilindrico, sono sdraiati su un triclinio; dietro, in un secondo piano, ci sono altri personaggi con lo stesso cappello sacerdotale; sulla sinistra c’è una figura femminile ammantata.       


Fonte: Dimore eterne
Testo: Ricchardo Villicich


Palmira (parte III) - la necropoli


Le prime menzioni storiche che fanno riferimento indirettamente ad un insediamento nell’oasi di Palmyra (l’antica Tadmor) risalgono al XIX secolo a. C. All’inizio l’oasi (provvista di una fonte d’acqua dolce e di una acqua sulfurea, la fonte Efqa) fu un semplice luogo di sosta, centro di passaggio di genti nomadi semitiche, che nel tempo divennero sedentarie.


. La sua posizione nel deserto  siriano, al punto d’incontro delle più importanti vie di comunicazioni tra Mesopotamia e Siria, tra Golfo Arabico e Mediterraneo, la portò, già a partire dal I secolo a. C., a divenire una “città carovaniera”, luogo di concentrazione e di diffusione di elementi culturali diversificati. Già nel periodo seleucide (III – I secolo a. C.) è notevole l’influenza greca; in seguito, alla fine del periodo repubblicano (I secolo a. C.) e nel periodo imperiale (I – III secolo d. C. si diffondono tratti della cultura romana.


Le nostre fonti d’informazioni sul mondo religioso palmireno sono costituite, oltre che dai resti archeologici di tombe e santuari, da iscrizioni e monumenti figurati: da rilievi e da sculture di defunti, da affreschi ritrovati all’interno delle tombe, inoltre da raffigurazioni di divinità palmirene. L’ideologia legata alla morte si ricava quindi dalla fusione dei dati in nostro possesso.


La tomba è chiamata, come altrove in Siria-Palestina, “casa dell’eternità”: la casa è il luogo sicuro, dove godere degli affetti familiari e del benessere da essi derivati. I banchetti funebri, organizzati  con regolarità per i defunti dai congiunti, rivelano, infatti, l’intento di continuare a renderli partecipi proprio della quotidianità della vita. Nell’area siriana il sepolcro è, fin dalle epoche più remote, segnato da una pietra. Tale pietra è considerata all’origine dei successivi monumenti sepolcrali, sia che si tratti di semplici stelle o di costruzioni complesse.


Il nome aramico, e quindi anche palmireno, della stele funeraria è “nefesh”, letteralmente “soffio” e perciò “soffio vitale”, e quindi “persona”: l’impiego del termine nel senso “monumento funerario” mostra identificazione tra defunto e sepoltura, intesa come sede della sua essenza vitale. Le strutture sepolcrali palmirene sono dislocate in diversi settori attorno alla città e vengono a costruire più necropoli. Le principali sono quella sudorientale, quella sudoccidentale e quella settentrionale, la cosiddetta “Valle delle Tombe”, le tipologie monumentali funerarie ritrovate a Palmyra sono le “tombe a torre” e le “tombe ad ipogeo”. Di un terzo tipo, costituito da tombe, cosiddette, a “tempio” o a “casa”, esistono rarissimi esempi.


Le “tombe a torre” si innalzano quasi esclusivamente nella “Valle delle Tombe” e le più antiche si datano tra il I secolo a. C. ed il I secolo d. C. I monumenti funerari, per il loro particolare sviluppo in altezza, fecero pensare, al momento delle prime ricognizioni archeologiche, a delle vere e proprie torri.


Costruite nella pietra locale hanno una base quadrata e poggiano su gradoni mondanati che si rastremano verso l’alto, ciò che conferisce loro una figura di grande eleganza. Parecchi metri sopra la porta d’accesso si trova di  solito una nicchia, con rilievi e iscrizioni funerarie, che si riferiscono al costruttore della tomba.


Le tombe più ricche, nella sala a pianterreno, scandiscono lo spazio, tra una fila di loculi e l’altra, con semicolonne, lesene, capitelli e fregi; sul soffitto a cassettoni, sono scolpiti motivi floreali o geometrici. Dall’alto del soffitto, che può raggiungere l’altezza di sette metri, fin sotto il piano di calpestio, sono predisposti gli spazi per sei loculi sovrapposti, in quattro file verticali. Accanto all’entrata, sulla destra o sulla sinistra, sale la scala che portava ai piani superiori, posta in un’intercapedine lasciata nel muro perimetrale.

 

I piani superiori, generalmente più bassi rispetto al piano terra, presentano le stesse ripartizioni, ma decorate con meno sfarzo. Le costruzioni “a torre” possono arrivare a sovrapporre fino a cinque piani, con un numero complessivo di loculi che sfiora i 300. gli esempi più rappresentativi di questa tipologia funeraria sono la tomba di Elahbel e la  tomba di Giambico.


La tomba di Elahbel, primo di quattro fratelli che furono i costruttori della tomba e svolsero un ruolo importante a Palmyra, fu terminata nel 103 d. C. Sul lato nord è posta l’entrata ad una camera sotterranea, indipendente dal corpo centrale, ma che ne sfrutta le fondamenta per alcune deposizioni. L’entrata principale, invece, è situata sul lato sud e sulla porta è incisa l’iscrizione di fondazione. All’interno, nella camera principale (lunga 7,5 metri, larga 3 e alta più di 6 metri), i loculi sovrapposti sono separati da lesene con capitello corinzio. Il soffitto a cassettoni racchiude rosette bianche che risaltano sul fondo blu;


al centro vi sono busti scolpiti di quattro personaggi con tracce di colore rosso per gli abiti e bianco, blu o nero per i gioielli. Sul muro di fondo due semicolonne sostengono un architrave modanato, al di sotto ed al di sopra del quale, ci sono due file di cinque busti femminili.a completamento della decorazione della parete vi è un letto funebre, con tracce di colore rosso, dal quale è scomparsa la scultura principale. Il monumento comprende quattro piani e termina con una copertura a terrazzo.


(continua...)





Palmira (parte II)


Anche la vitalità della nuova cultura cristiana si spense nel 634, con la definitiva conquista da parte degli Arabi. La città, oggetto di ricerche e scavi archeologici sin dagli inizi del XX secolo (da segnalare la missione tedesca che operò dal 1902 al 1917, poi quelle francesi, siriane, svizzere e, a partire dal 1959, la missione polacca diretta da K. Michalowski), presenta un tessuto urbano irregolare, caratterizzato da nuclei e quartieri che si sviluppano in fasi cronologiche successive, assumendo orientamenti forzatamente divergenti.


Una grande via colonnata costituisce da una parte un tentativo di regolarizzazione di un complesso per il resto molto slegato, dall’altra una continuità scenografica alla giustapposizione paratattica dei monumenti lungo il suo percorso. La “platea” (lunga 1100 metri, con una carreggiata larga 11), caratterizzata da due file di colonne recanti mensole destinate a sorreggere statue di personaggi illustri, non si profila come un tracciato rettilineo, ma si suddivide in almeno tre snodi piuttosto netti che sono dissimulati da due monumenti: un tetrapilo e un arco a pianta triangolale con funzione a cerniera.


Mentre il primo, un monumento quadrifronte composto da 16 colonne in granito ripartite su quattro pilastri quadrati, aveva una funzione prevalentemente decorativa, l’arco monumentale a tre fornici, di età Severiana, costituiva, grazie alla sua pianta triangolare, un geniale espediente che così ideato consentiva al monumento di presentare una facciata perpendicolare a entrambi i segmenti divergenti della “platea”. Nel tratto mediano della via colonnata, compreso fra il tetrapilo e l’arco, si distribuivano gli edifici pubblici più rappresentativi: L’agora quadrata, il teatro, il tempio di Nebo (divinità del pantheon babilonese, assimilata ad Apollo) e le terme di Diocleziano.


Dall’arco Severiano, seguendo il tratto sudorientale della platea (rifatto a partire dal 200 d. C. e forse mai portato a compimento) si giungeva al grande santuario di Bel, costituito da un ampio “temenos” porticato di forma quasi quadrata (250 metri per 210) che racchiudeva al centro un tempio periptero con  otto colonne in facciata. L’edificio di culto, datato al 32 d. C. e dedicato al dio supremo Bel (più tardi assimilato al Giove), costituisce un interessantissimo ibrido in cui coesistono elementi architettonici di tipo classico, come le colonne corinze e i due frontoni, unitamente a rielaborazioni derivanti da più antiche tradizioni mesopotamiche.


I frontoni stessi, che nei ordini classici, come parte terminale di un tetto a spioventi, hanno funzione strutturale, svolgono in questo caso esclusivamente un ruolo ornamentale, dal momento che la copertura del tempio era a terrazza.
A quest’ultima, su cui venivano celebrati peculiari rituali di culto, era possibile accedere tramite una serie di scala a chiocciola poste al interno della cella. Influssi orientali si possono cogliere nella scelta di collocare l’accesso alla cella non su un lato breve, come è consuetudine, bensì su uno dei lati lunghi del tempio, nonché nell’originale trabeazione sovrasta da una fila di merli dentati e nelle presenza all’interno della cella di due cappelle (“thalamoi”) contrapposte.


Di età adriana era invece il tempio di Baalshamin, inserito in una preesistente santuario di tipo orientale, mentre il tempio di Atena e Allat, ubicato nel settore occidentale della città, laddove sorgerà il campo militare di Diocleziano, rappresenta un ennesimo esempio di assimilazione di una divinità di origine orientale con una del pantheon greco-romano.
Al culto dei morti e all’arte figurativa si legano altri monumenti caratteristici di Palmyra: le tombe a tempio, a torre o a ipogeo, all’interno delle quali i numerosi loculi erano chiusi da lastre scolpite, le cosiddette stele palmirene, in cui spesso appaiono raffigurate scene di banchetto funebre, con il defunto fra i suoi familiari. Frequenti sono le rappresentazioni di personaggi vestiti alla romana, ma più sovente, soprattutto nel caso di figure femminili, vengono preferiti abiti e acconciature di tipo orientale.


Fonte: Le città perdute
Testo: Ricchardo Villicich

Altre info:




Palmira (parte I)


Palmira, antica città carovaniera della Siria, sorse in un’oasi situata a metà strada fra Homs e Abu Kermal sull’Eufrate, lungo una direttrice commerciale che dai territori mesopotamici percoreva il deserto fino al Mediterraneo. Il nome della città risale al periodo greco-romano; in realtà l’antico centro, con un primo insediamento collocabile agli albori del II millennio a. C., era noto con il nome di Tadmor e abitato da una popolazione riconducibile inizialmente al gruppo degli Amorrei e poi a quello degli Arami. È in età romana, comunque, che Palmyra conobbe quella straordinaria prosperità economica che ne fece indubbiamente uno dei centri più ricchi dell’area orientale dell’impero.


Il primo contatto dei Romani con la metropoli del deserto avvenne nel 41 a. C., quando Antonio, come ricorda un passo di Appiano, tentò di saccheggiare questa città di opulenti mercanti.
A partire dal I secolo d. C. Palmira, città prima autonoma e poi tributaria della provincia romana di Siria, acquisì un ruolo di primaria importanza nello scacchiere romano lungo il “limes” orientale, sia come barriera alle incursioni dei Parti, sia come il centro egemone del commercio carovaniero.


Le lunghe carovane, in un continuo flusso da oriente verso occidente e viceversa, percorrevano la via che dal golfo Persico risaliva l’Eufrate e da Doura Europos, passando per Palmira, raggiungeva Emesa e il Mediterraneo. I mercanti palmireni commerciavano ogni tipo di prodotti raffinati ed esotici: dall’India venivano pietre dure, cotone e aromi; dalla Cina la seta; dall’Arabia mirra, incenso e gemme; dalla Fenicia lana tinta di porpora e vetri policromi.


Nel 129 d. C. l’imperatore Adriano, durante una sua visita alla città, le concesse la piena autonomia fiscale; in suo onore essa assumerà il nome di Hadriana Tadmor. Dopo un periodo di grande prosperità sotto i Severi (Caracolla conferì a Palmyra lo stato giuridico di colonia romana), nei decenni di anarchia che seguirono la morte di Alessandro Severo, il principe Odenato, governatore della provincia e autore di una decisiva vittoria sui Persiani che gli valse il titolo autocelebrativo di “Re dei Re”, fece di Palmira la capitale di un vero e proprio despotato orientale, politicamente autonomo.   


Dopo la morte di Odenato la regina Zenobia, vedova di quest’ultimo, e il figlio Vaballato, approfittando del periodo di crisi dell’impero, cercarono di estendere i confini del nuovo regno a  danno dei Romani, invadendo Egitto, Siria e parte dell’Anatolia. Con la sconfita di Zenobia da parte di Aureliano nel 273 d. C. la successiva caduta della città inizio la parabola discendente di quella che fu uno dei centri urbani più ricchi d’Oriente.



Nonostante alcuni interventi da parte di Diocleziano, che rafforzò le mura, restrinse il perimetro urbano e installò al suo interno un campo militare, Palmira non riacquistò il suo primato commerciale.


(continua....)

venerdì 26 novembre 2010

The importance of being Oscar (L'importanza di chiamarsi Oscar)



Sottotitolo: L'istigazione alla lettura

Il conosciuto detto inglese dice: “Tutti i buoni scrittori inglesi sono o irlandesi o omosessuali”. Oscar Wilde a quanto sembra è l’unico che soddisfa tutte due condizioni. Il cerchio della sua vita comincia a Dublino, nell’anno 1854, ed è finito nel 1900 in un misero albergo Alsace a Parigi, dove si era rifugiato nel1897 dopo aver scontato due anni in carcere con il lavoro forzato. Nel periodo del suo parigino tramonto aveva conosciuto il giovane Andre Gide, al quale una volta aveva confidato: “Ho investito la mia genialità nella mia vita, e nella mia opera soltanto il talento.” Che cosa si può aspettare altrimenti di un uomo che si riteneva uno dei pochi fortunati, “the happy few”, e chi aveva scritto una diecina d’anni prima: “Vivere, questo è la cosa più rara al mondo. Il maggior numero delle persone esiste soltanto.”
Wilde aveva frequentato le miglior scuole: per prima il Trinity College (dove alcuni decenni più tardi James Joyce convocherà il suo “alter ego” – Stephan Dedalus) e poi andrà ad Oxford.
   Il suo primo grande amore fu Florance Balcombe, ma lei rifiuta il giovane “dandy” e sceglie un certo Bram Stoker, quello stesso che venti anni più tardi introdurrà nella letteratura la famosa figura del conte Dracula. (A quanto sembra, era molto brava musa questa Florence!) Deluso da queste (usiamo le parole di Shakespeare) “pene d’amor perdute”, Wilde lascia l’Irlanda e si trasferisce a Londra. Nell’ anno 1881. pubblica il primo libro: la raccolta di poesie. L’anno seguente va ad insegnare in America e in quell’occasione alla dogana pronuncia quella famosa frase. “Avete da dichiarare qualche cosa?” aveva chiesto il doganiere. Wilde rispose saccente: “Niente, tranne la mia genialità.”
   L’anno 1884 si sposa con Costance Lloyd. Nei prossimi dieci anni (in apparenza) Wilde vive la vita di una favola. Diventa  padre, si afferma come lo scrittore, diventa il beniamino dei mondani aristocratici saloni vittoriani… Per i suoi figli scrive alcuni racconti per i ragazzi, le fiabe moderne ( “Il principe felice”, e “La casa dei melograni”). Pubblica la raccolta di racconti “Il delitto di lord Arthur Savile”. L’anno 1891. pubblica il suo unico romanzo “Il ritratto di Dorian Grey”, il romanzo che alcuni avevano etichettato l’elaborazione del racconto di Stevens  “Dr. Jekyll e Mr. Hyde” , il romanzo che era entrato anche in quello stretto cerchio di artefatti conosciuti anche a quelli che non amavano di leggere. Un anno più tardi comincia la sua carriera di scrittore drammatico. Il suo primo dramma era “Il ventaglio di Lady Windermere”, un anno più tardi arriva “Una donna senza importanza”, e nell’ anno 1895  “Un marito ideale” e “L’importanza di chiamarsi Ernesto”. Il suo ultimo dramma “Salome” è stato scritto nella lingua francese, è stato vietato a Londra, ed è stato rappresentato a Parigi (giovane Bechett spesso è stato paragonato con Wilde, perché anche lui era un irlandese che scriveva in lingua francese). Dal libretto basato su questo dramma Richard Strass scrisse l’opera. Lord Alfred Douglas l’aveva tradotto in lingua inglese. Alfred Douglas (conosciuto meglio come Bosie) era il suo amico intimo e l’amante e cosi, indirettamente è stato colpevole per il suo arresto. Durante il suo soggiorno in prigione Wilde scrive a Bosie, e queste lettere sono state pubblicate dopo la sua morte (1905.) con il nome “De profundis”. Esce di prigione come un uomo povero e distrutto. Si trasferisce in Francia e prende il nome Sebastian Melmoth. Muore a Parigi.
   Le commedie di Oscar Wilde sono le più belle e le più reali illustrazioni della società vittoriana. I sociologi può darsi le chiamerebbero le parodie, però Wilde era consapevole che anche lui apparteneva a questa società. Se in esse c’è l’ironia si tratta soltanto della autoironia. Wilde non è un cinico, lui soltanto aveva dato la miglior definizione del cinico: “Il cinico è la persona che conosce il prezzo di ogni cosa, ma non conosce il loro valore.” Però l’appartenenza ad una classe sociale non deve implicare automaticamente anche la sua adorazione e l’ignoranza. La conferma ci arriva anche da una frase di Lennon: “La società spesso perdona un criminale, ma mai un sognatore”. Wilde era proprio un sognatore, un sognatore come l’oggetto lirico della canzone “Imagine” di J. Lennon. L’uomo che è stato ricordato tra altro anche per la frase: “Riesco a resistere a tutto, tranne alla tentazione”, doveva alla fine cascare nella tentazione ed essere espulso dalla società.
Malgrado al tragico destino e le disgrazie che gli sono capitate, Wilde era soprattutto – come aveva detto Borges – l’artista della felicità, l’uomo che conserva, malgrado essere abituato alle disgrazie e al male, l’intoccabile verginità. Alla fine possiamo chiederci usando le frasi di Amleto: “Che cosa rappresenta a noi Wilde oggi?” Per rispondere, bisogna di nuovo citare, e chi altro se no, Borges: “Secondo me è impossibile spiegare Wilde con i mezzi tecnici. Pensare a lui significa pensare a un caro amico, che non abbiamo visto mai, però di chi conosciamo la voce e ogni giorno sentiamo la sua mancanza.” E un vero peccato che non è più vivo e che non possiamo sentire come avrebbe commentato il fatto che il più prestigioso simbolo dell’odierno snobismo hollywoodiano è stato battezzato con il suo nome.

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APOLOGIA

E' tua volontà ch'io debba turbarmi e impallidire,
Barattare il mio panno d'oro per un rustico grigio,
E a piacer tuo tessere quella rete di dolore
A ogni filo più lucente corrisponde un giorno sprecato?
E' tua volontà - Amore che amo così tanto -
Che la Dimora dell'Anima mia sia un luogo tormentato
Dove come drudi malvagi debbano dimorare
La fiamma mai estinta, il verme che non muore?
Si, se è la tua volontà, lo sopporterò,
E venderò l'ambizione al mercato comune,
E lascerò che il cupo fallimento sia il mio vestito,
E che il dolore si scavi la tomba nel mio cuore.
Sarà meglio così, forse, - almeno
Non ho fatto del mio cuore un cuore di pietra,
Non ho privato la mia adolescenza del suo ampio banchetto,
Non ho viaggiato dove la Bellezza è una cosa sconosciuta.
Molti han fatto così; hanno tentato di limitare
In rigidi confini l'anima che dovrebb'essere libera,
Hanno percorso la strada polverosa del senno comune,
Mentre tutta la foresta cantava di libertà,
Senza vedere come il maculato falco in volo
Passava su ampie ali nel sommo dell'aria,
Diretto ove una ripida inviolata altura montana
Catturava le ultime trecce della chioma del Dio Sole.
O come il fiorellino è calpestato:
La primula, quello scudo d'oro piumato di bianco,
Seguiva con occhi assorti il vagare del sole,
Contenta se una volta le sue foglie ne erano aureolate.
Ma certo è qualcosa essere stato
Il più amato per un breve tratto,
Aver camminato mano in mano all'Amore, e avere visto
Le sue ali purpuree volteggiare una volta nel tuo sorriso.
Ah! Anche se il satollo aspide della passione si ciba
Del mio cuore di ragazzo, pure ho sfondato le sbarre,
Sono stato faccia a faccia con la Bellezza, ho conosciuto davvero
L'Amore che muove il Sole e le altre stelle!

Oscar Wilde


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mercoledì 24 novembre 2010

Templi di Pagan (parte II)


Le ragioni del declino di Pagan rimangono tuttora controverse: secondo la storiografia ufficiale birmana sarebbero state le devastazioni dei Tartari a indebolire l’impero, mentre altre fonti sembrano alludere a germi di decadenza già presenti negli ultimi anni del regno.
Thathbyinnyu 

Sta di fatto che, dalla fine del XIII secolo, la crescita della città si arrestò improvvisamente e moltissimi templi furono demoliti per far posto a fortificazioni, mentre altri vennero saccheggiati. Ridotta drasticamente la popolazione, Pagan divenne per i successivi tre secoli una città fantasma, terreno di scorribande di ladri e profanatori di templi.


Htilominlo Pahto

Simile al precedente, ma molto più massiccio, è il Dhamayangyi Pahto, attribuito al re Narathu (1167 – 1170). Questo tempio racchiude un mistero architettonico tuttora irrisolto. Uno dei due ambulacri situati nella parte centrale della struttura è interamente occupato da detriti che nascondono in parte alla vista gli stucchi e gli affreschi che lo decorano. Secondo la leggenda ciò si deve agli scavi impiegati nella costruzione del tempio che, per vendicarsi delle angherie subite da parte del re durante i lavori, colmarono il corridoio interno con frammenti di mattone.
I tempi Pathothamya, Apeyadana e Gubyaukgyi offrono un ottimo esempio dello stile degli edifici di piccole dimensioni in voga nel periodo precedente alle grandi innovazioni architettoniche del XII secolo.

Gawdawpalin Pahto

Lo Shwegugy e il Thatbyinnyu, entrambi voluti da Alaungsithu (1113 – 1163), rappresentano un’innovazione architettonica rispetto ai precedenti, segnalando il passaggio da una struttura massiccia e buia, a una più ariosa e meglio illuminata. Questi due “pahto” costituiscono un classico esempio di architettura del periodo medio di Pagan.

                                                                         Buddha giacente

I templi Sulamani, costruito da Narapatisithu nel 1181, e Htilominlo, voluto da Nadaungmya (1211 – 1234), sono due dei migliori esempi di tardo stile di Pagan. Essi combinano l’impianto orizzontale tipico del primo periodo con la tendenza alla verticalità di quello di mezzo. Il vertice dell’architettura tarda del Pagan è, infine, rappresentato dal tempio Gawdawpalin, completato sotto Nadaungmya.


Il re mon Manhua, nei lunghi anni trascorsi a Pagan come ostaggio, ottenne il permesso di costruire il tempio Manhua Paya nel 1059. di dimensioni relativamente piccole, esso contiene tre grandi immagini di Buddha seduto e un enorme Buddha sdraiato. L’evidente sproporzione fra le dimensioni delle statue e lo spazio che le contiene conferisce all’interno un senso di costrizione e soffocamento che dovrebbero, almeno secondo la leggenda, riflettere lo stato d’animo del re in cattività. L’unica nota di serenità è data dal sorriso del Buddha giacente, nell’atto di entrare nel “nirvana”: solo la rinucia alle cose terrene avrebbe infatti liberato il re dalla prigione di Pagan.
                               

Testo di Marco Ceresa
Fonte: "Le città perdute"



Templi di Pagan (parte I)

Minnhathu è uno dei principali centri abitati nella zona dell’odierna Pagan

Due sono le antiche capitali religiose del sud-est asiatico: Pagan in Birmania e Angkor in Cambogia. Universalmente note per il numero e la magnificenza dei loro templi, le due città hanno avuto uno sviluppo urbanistico del tutto differente. Mentre Angkor è nascosta nel mezzo della giungla, dove la natura cerca ostinatamente di riguadagnare lo spazio strappatole dagli uomini, le rovine di Pagan sorgono in una piana arida e brulla, senza alcuno schermo che le nasconde alla vista.

                                                                                    Tempio Tayok Pye Paya


La città conta migliaia di templi, perfettamente visibili l’uno dall’altro, che si stendono a perdita d’occhio su una superficie di oltre 40 chilometri quadrati. Situata 480 chilometri a nord di Yangoon (l’ex Rangoon), e 193 a sud di Mandalay, Pagan sorge sulla riva orientale del fiume Irrawaddy e domina la pianura centrale di Birmania. Benché tradizionalmente la fondazione della città sia fisata all’849 d. C., fonti archeologiche hanno dimostrato che a quell’epoca Pagan era già un insediamento di notevoli proporzioni, fondato dai Pyu, gruppo etnico migrato dall’altopiano tibeto-birmano o dall’India.

                     Templi Lemyethna Pahto, Thambula Pahto, Nandamannya Pahto, Tayok Pye Paya e Payathonzu


I Pyu furono dispersi o assorbiti dagli invasori provenienti dallo Yunnan nel X secolo d. C., e la loro scomparsa lasciò la Birmania centrale priva di una guida. Il sud del paese, invece, e in particolare la zona del delta dell’Irrawaddy, era già dal IV secolo sotto il dominio dei Mon, una popolazione proveniente dall’India orientale o, secondo un’altra ipotesi, indigena del sud asiatico.
Fra l’VIII e il IX secolo d. C. i Bamar o Birmani, provenienti dall’Himalaya orientale, colmarono il vuoto di potere lasciato dai Pyu nella Birmania centrale e occuparono il sito dell’attuale Pagan, instaurandovi la propria capitale.

                                                                                              Shwesandaw

L’importanza di Pagan ebbe inizio con l’ascesa al trono del re Anawrahta. A quel tempo i Bamar, che inizialmente praticavano una religione mista di tantrismo e buddismo “mahayana”, si andavano progressivamente convertendo alla scuola buddista “theravada”. Manhua, re mon di Thaton, riuscì a iniziare a questa dottrina il re Anawrahta. Ma quando questi pretese che gli fossero consegnate le scrittur e le reliquie buddiste conservate a Thaton, Manhua, non fidandosi dello zelo del neoconvertito, oppose un netto rifiuto.

             
Tempio Ananda Pahto

Anawratha, per tutta risposta si impadronì di Tathon, facendone prigioniero il re, nel 1057. il rientro trionfale di Anawratha nella capitale, seguito dallo sconfitto Manhua, segna l’inizio del primo impero birmano e della gloria di questa città.

Tempio Ananda

Il declino di Pagan coincise con l’ascesa di Kublai Khan nel nord della Cina. Nel 1287 i Mongoli, passando per lo Yunnan, invasero la Birmania. Così si presentava il regno di Pagan agli occhi di Marco Polo, che lo visitò nel 1298:

“Sappiate che, quando l’uomo à cavalcate quindici giornate per questo così diverso luogo, l’uomo trova una città ch’à nome Mien, molto grande e nobile. La gente è idola. È son al Grande Kane e ànno lingua per loro. E in questa città à una molto ricca c[o]sa, che anticamente fue in questa città un molto ricco re; e quando venne a morte, lasciò che da ogne capo de la sua sopultura si dovesse fare una torre, l’una d’oro e l’altra d’ariento. E queste torri sono fate com’io vi dirò, ch’elle sono alte bene dieci passi e grosse come si conviene a quella altezza. La torre si è di pietre, tutta coperta d’oro di fuori, ed èvi grosso bene un dito, sì che vedendola par pura d’oro; di sopra è tonda, e quel tondo è tutto pieno di campanelle indorate, che suonano tutte le volte che ‘l vento vi percuote. L’altra è d’ariento, ed è fatta né più né meno. E questo re le fece fare per sua grandezza e per sua anima; e dicovi ch’ell’è la più bella cosa del mondo a vedere e di magior valuta”
(“Il Milione”, capitolo 121, “De la provincia Mien”)


Shwezigon Paya
(continua...)

L’impero di Pagan godette di tre secoli di pace e prosperità, durante i quali la civiltà birmana conobbe una fioritura culturale e religiosa senza precedenti. La straordinaria quantità di templi e l’eccezionale qualità delle sculture e dei dipinti superstiti fanno di questo periodo il più importante dell’arte birmana.

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