sabato 2 aprile 2011

Abu Simbel – L’apoteosi di Ramsese II


La riscoperta dei due templi di Abu Simbel si deve allo svizzero Johann Ludwig Burkhardt (1784 – 1817). Nel corso del suo soggiorno a Malta (1809), dove si era recato per perfezionare la conoscenza della lingua araba, Burkhardt si convertì all’Islam e assunse il nome di Ibrahim ibn Abdallah. Divenuto musulmano a tutti gli effetti, viaggiò a lungo in Egitto e nel Vicino Oriente riuscendo a spingersi dove nessun altro occidentale era arrivato.


Nel 1813 intraprese l’esplorazione della regione a sud di Quasr Ibrim, in Nubia. Sulla strada di ritorno decise di fare una sosta nella località di Ebsambal (così lo svizzero trascrive il nome di Abu Simbel nelle sue note) dove, secondo quanto gli avevano raccontato i locali, a non molta distanza dal Nilo, doveva trovarsi un tempio di straordinaria bellezza.



Le informazioni si rivelarono esatte e così Burkhardt si trovò di fronte alla facciata di uno splendido santuario rupestre (quello dedicato a Nefertari), decorata da sei statue colossali.
Prima di lasciare la località, Burkhardt decise di esplorare i paraggi. Si spinse verso il deserto e scoprì il secondo tempio (quello di Ramsete II), che appariva allora quasi completamente coperto dalla sabbia. Fuoriusciva soltanto la parte superiore del colosso meridionale di cui Burkhardt ha lasciato una descrizione meravigliata ed estatica nelle sue note.



Tornato a Cairo, Burkhardt raccontò quello che aveva visto a Giovanni Battista Belzoni (1778 – 1823), che quando ebbe occasione di visitare la Nubia non mancò di fermarsi ad Abu Simbel dove, dopo innumerevoli sforzi, riuscì a liberare dalla sabbia l’entrata del Tempio Maggiore e a penetrare al suo interno. Da quel momento in poi i santuari rupestri di Abu Simbel divennero una meta obbligata nei viaggi in Egitto. Gli abitanti del luogo venivano ingaggiati per rimuovere la sabbia che ostruiva l’accesso al Tempio Maggiore. Alla partenza dei turisti, che arrivavano in battello, erano proprio loro, i locali, che tornavano a ricoprire l’entrata per poter essere nuovamente ingaggiati all’arrivo di nuovi visitatori. Sul finire dell’800 il Servizio delle antichità decise di porre termine, una volta per tutte, a questa situazione e liberò completamente la facciata del Tempio Maggiore.


Nei primi anni del ‘900 la costruzione di uno sbarramento del Nilo ad Assuan condusse a un innalzamento delle acque del fiume e alla necessità di proteggere il sito di Abu Simbel dalla sommersone. La situazione si fece ancora più drammatica verso la fine degli anni Cinquanta, allorché fu decisa la costruzione della Grande Diga. L’8 marzo 1960 l’UNESCO chiedeva la collaborazione internazionale per il salvataggio dei santuari rupestri di Abu Simbel. Fra i progetti presentati fu scelto quello che prevedeva il taglio dei templi in blocchi e la loro successiva ricostruzione in un luogo più elevato.



Le difficili e gigantesche operazioni si protrassero per anni. I due santuari furono prima accuratamente puntellati e ricoperti di sabbia, affinché non avessero a subire i danni e poi sezionati in centinaia di blocchi. Infine si provvide a ricostruirli a centocinquanta metri di distanza dal sito di origine, sopraelevandoli così di circa  sessanta metri. Le due colline all’interno delle quali erano stati scavati furono sostituite da cupole in cemento armato ricoperte di sabbia. Nelle operazioni di ricostruzione si cercò di mantenere quanto più inalterati possibile l’ambientazione, l’orientamento e le distanze reciproche dei due monumenti. Il 22 settembre 1968 l’inaugurazione ufficiale segnava la conclusione delle operazioni di salvataggio.



I due santuari rupestri voluti da Ramsese II (1290 – 1224 a.C.) dovevano originariamente trovarsi in prossimità di un insediamento coloniale egiziano, di cui non è rimasta più alcuna traccia e che aveva la duplice funzione di controllare le frontiere meridionali e di gestire il commercio con le popolazioni nubiane. Il Tempio Maggiore è preceduto da una terrazza davanti alla quale si apre una larga spianata. In facciata si ergono quattro colossi, posti a coppie ai due lati dell’ingresso principale, che ritraggono Ramsese II seduto. La parte superiore della statua meridionale più interna giace oggi a terra. A provocare un tale danno fu un terremoto, sopravvenuto a pochi anni di distanza dalla costruzione del tempio.



Altri cedimenti furono causati dal medesimo evento sismico e condussero al restauro di alcune parti della facciata e di alcune strutture interne. Le statue colossali, alte quasi venti metri, sono state scolpite nella roccia della collina retrostante, in modo da risultare pesantemente assise sui loro troni. La loro maestosità è sottolineata anche dalla corona composta dell’Alto e Basso Egitto quale copricapo. Alla loro imponenza si contrappongono la dolcezza e la tranquillità profuse dai loro visi, caratteristiche che rinviano all’immagine del sovrano giusto e magnanimo, in grado di ascoltare le suppliche dei propri sudditi.



Ai piedi delle maestose immagini sono ritratti i membri della numerosa famiglia del sovrano. Statue dei principi, principesse e regine riempiono tutto lo spazio circostante dando vita a una composizione d’insieme ricca, variata e, se vogliamo, confusionaria, del tutto in linea con il gusto artistico più tipico dell’epoca ramesseide. Varie iscrizioni sono incise sulla roccia circostante. Tra queste è degna di nota quella che racconta il matrimonio di Ramsete II con una principessa ittita.



Sopra l’ingresso principale al tempio si trova un’immagine di Ra-Harakhti scolpita in forte altorilievo. Il dio è rappresentato incedente e in visione frontale, con le braccia che scendono lungo i fianchi. La mano destra poggia su uno scettro-user, la sinistra su un’immagine della dea della giustizia Maat.



La presenza di questi due elementi induce a una interpretazione secondaria di tutta la composizione che può così essere “letta”, utilizzando lo stesso sistema di decodifica dei rebus, come User-maat-ra (lo scettro + la dea della giustizia + Ra-Harakhti), che è uno dei nomi di Ramsese II, traducibile in “Possente di giustizia è Ra”. Il fatto che la scultura possa essere interpretata sia come effige di Ra, sia come il nome di Ramsese II, è estremamente significativo e fa parte di quel tentativo di autoglorificazione del sovrano e che trova completa manifestazione soltanto qui ad Abu Simbel. Ai due lati dell’immagine di Ra-Harakhti si trovano infatti due figure dello stesso Ramsese II in adorazione. L’intera composizione può perciò essere interpretata come una scena in cui il sovrano rende omaggio a Ra-Harakhti e, allo stesso tempo, al proprio nome.
Il Tempio Maggiore è concepito in modo che tutte le maggiori partizioni del santuario egizio classico trovino attuazione in una struttura completamente scavata nella roccia. La prima sala richiama così la decorazione del cortile di un tempio attraverso i pilastri contro cui poggiano imponenti figure del sovrano, rappresentato stante e con le braccia conserte.


I colossi della fila di pilastri meridionali indossano la Corona Bianca, emblema del dominio dell’Alto Egitto, quelli della fila settentrionale portano invece la Doppia Corona, simbolo della regalità sull’Egitto unito. Nei loro visi si ritrova la stessa espressione di sereno distacco già riscontrata nelle statue che ornano la facciata.



Le pareti della sala sono decorate con rilievi a incavo che ricordano le gesta belliche più significative compiute da Ramsese II. La parete settentrionale è interamente dedicata alle fasi salienti della battaglia di Qadesh. Accanto all’ingresso è riprodotto l’accampamento egiziano, nel momento in cui esercito ittita sferra il proprio attacco.


Poco oltre è invece raffigurato l’episodio della controffensiva egiziana sferrata contro Qadesh. Intorno alla città scorre il fiume Oronte, dove galleggiano i cadaveri dei principi ittiti e dei loro alleati. Sulla sala ipostila si affacciano alcuni ambienti, soltanto parzialmente decorati, che dovevano servire un tempo per immagazzinare gli arredi e le forniture cultuali del tempio. Tra i rilievi che decorano queste sale, vi sono scene in cui Ramsese II compie offerte a varie divinità, tra le quali è incluso anche lo stesso sovrano.



Una seconda sala ipostila, successiva alla prima, conduce il visitatore in una dimensione più intima, giocata sulla riduzione progressiva dei volumi e della luce, fino alla parte più raccolta della struttura: il santuario. Sulla parete di fondo di quest’ultimo troneggiano le effigie delle divinità che compongono la cosiddetta “triade ramesside”: Amon-Ra di Tebe, Ptah di Menfi e Ra di Elaiopoli. Accanto a esse si trova la statua del sovrano. Nella parte più intima del tempio giunge così a conclusione il discorso autocelebrativo iniziato in facciata.
La fine del percorso architettonico segna anche il punto di massima esaltazione di Ramsese II. Il sovrano è divinizzato attraverso l’accostamento agli dèi più importanti del Paese mentre è ancora vivo.



Il Tempio Minore, dedicato alla sposa di Ramsese II, Nefertari, concorre a rendere palese il discorso relativo alla concezione divina della sovranità, espressa attraverso forme artistiche monumentali. Nel santuario è infatti celebrata Nefertari in assimilazione con la dea Hathor di Ibshek.



La regina diviene così la degna sposa del faraone-dio. Il suo tempio è una replica, in dimensioni ridotte, di quello Maggiore. La facciata prevede sei statue colossali: quattro di Ramsese II e due di Nefertari. Entrambi sono raffigurati incedenti, come se uscissero dalla montagna retrostante.



La regina porta il tipico copricapo hathorico (un disco solare racchiuso da corna bovine) mentre variano le corone indossate dal sovrano. L’interno del santuario prevede una sala ipostila a sei piastri, decorati con l’emblema di Hathor: il viso della dea riprodotto frontalmente.



Si accede poi ad una sala a sviluppo traversale, alle cui estremità si aprono due ambienti sussidiari, che immette nella cella. Nel muro di fondo di quest’ultima si apre una nicchia in cui si trova una statua Hathor, ritratta come una giovenca che protegge il re. La decorazione parietale prevede esclusivamente scene in cui il sovrano e la regina sono ritratti in adorazione di varie divinità.


5 commenti:

tatagioiosa ha detto...

Interessante la storia dello svizzero che si converte all'Islam e scopre Abu Simbel parlando con la gente del posto. Le foto sono bellissime.

Il Mondo Capovolto ha detto...

Concordo con tatagioiosa!!Interessante davvero!!
Belle anche le foto!!!
Poi che imponenza queste strutture...chissà cosa si prova a vederle dal vivo :)

Federica ha detto...

Oltre Federico II amo anche Ramses II e vorrei andare in Egitto (non a Sharm) ma per vedere i suoi monumenti (anche quelli di Tutankamon, Akenaton, ecc...) e quindi questo post mi piace particolarmente!!!
A presto
Federica

Federica ha detto...

Oltre Federico II amo anche Ramses II e vorrei andare in Egitto (non a Sharm) ma per vedere i suoi monumenti (anche quelli di Tutankamon, Akenaton, ecc...) e quindi questo post mi piace particolarmente!!!
A presto
Federica

Silvia O. ha detto...

Nel 2009 abbiamo fatto una crociera sul Nilo e questa era una delle mete. Posso dire che vale la pena affrontare il lungo viaggio (ed i 45 gradi delle ore 10) anche solo per questo sito! Una meraviglia!

A progettare e realizzare il salvataggio dei due templi furono degli Italiani!!! Evviva, abbiamo contribuito a rendere eterno questo luogo meraviglioso!

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...